(Studi Cattolici, n. 1/2016)
Il Santo Padre è recentemente tornato a parlare di corruzione evidenziando come la “mentalità di corruzione pubblica e privata” che si annida nella nostra società generi solo impoverimento e fenomeni di esclusione che colpiscono sempre più i giovani, i più deboli e i bisognosi.
Nell’Evangelii Gaudium, il Pontefice aveva indicato nell’inclusione sociale la strada maestra per umanizzare la società e per sconfiggere una “corruzione ramificata”, di dimensioni mondiali. In occasione dell’Assemblea Generale della CEI, Papa Francesco si è invece soffermato sulla necessità di contrapporre ad essa una “sensibilità ecclesiale”, ovvero, la capacità di “appropriarsi degli stessi sentimenti di Cristo, di umiltà, di compassione, di misericordia, di concretezza – la carità di Cristo è concreta – e di saggezza”. Non si tratta di due diverse strade in contrapposizione tra loro; bensì di due vie destinate ad intrecciarsi l’un l’altra, divenendo ciascuna il rovescio dell’altra.
L’espressione usata da Francesco non è pienamente sovrapponibile a quella che solitamente usiamo nel linguaggio comune per parlare di corruzione. Nella prospettiva la dottrina sociale della Chiesa (DSC), essa si riferisce a qualsiasi forma di disumanizzazione dei meccanismi di convivenza sociale che, negando la dignità dell’uomo e la sua natura relazionale, comporti conseguenze negative su quel bene morale che è la fiducia, ovvero, sull’aspettativa che tutti si comportino secondo certi valori morali condivisi.
L’esperienza insegna, purtroppo, che l’insieme di singoli fenomeni corruttivi – e, quindi, la pervasività di una mentalità corrotta che si traduca in una cornice istituzionale di tipo estrattivo – rappresenta la cartina di tornasole di una società ingiusta ed incapace di guardare al bene comune. La corruzione, anteponendo sistematicamente l’interesse di pochi e la tutela delle rendite di posizione alla ricerca del bene comune ed incidendo sul corretto funzionamento delle istituzioni politiche ed economiche, produce una sottocultura che si traduce in un ordine sociale a sua volta corrotto, che compromette lo sviluppo materiale, sociale e spirituale di un popolo provocando ingiustizie e povertà. Quando ciò accade, quando cioè l’egoismo e la sopraffazione dei più deboli divengono i principi cardine su cui si regge la convivenza sociale in quello che chiamiamo il circolo vizioso delle istituzioni estrattive, è la persona a rimanerne ostaggio, provocando in essa rassegnazione e umiliazione.
È pertanto evidente che una simile disumanizzazione dei meccanismi di convivenza tra gli uomini non può essere né accettata, né tollerata. Le parole di Francesco ci ricordano che ciascuno di noi è chiamato a farsi imitatore di Cristo (perfectus Deus, perfectus homo) e lo stesso richiamo ad una maggiore “sensibilità ecclesiale”[1] si traduce, quindi, in un invito rivolto a ciascuno di noi, ad essere semplicemente cristiani (“Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse sapore, con che cosa lo si potrà rendere salato?”, Mt 5, 13) e a far si che l’esercizio del dono della libertà personale diventi occasione di umanizzazione della società e non il contrario. Affinché l’esercizio delle virtù umane possa tradursi in un bene pubblico, siamo perciò invitati ad una unità di vita, poiché ciascuno di noi è responsabile oltre che delle sue azioni, anche delle strutture e dei comportamenti sociali.
All’opposto della corruzione v’è dunque la fiducia. Essa quale elemento fondante della stessa relazione tra l’uomo – libero e responsabile – e Dio, lo è (o dovrebbe esserlo) a maggior ragione nei rapporti interpersonali (“Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”, Mt 25, 40). Essa è strettamente connessa all’esercizio delle virtù umane, al punto che la DSC indica proprio in tale agire umano la via per rafforzare e coltivare quel capitale sociale ritenuto essenziale per lo sviluppo di una società autenticamente umana, capace di contrastare efficacemente l’idolatria dell’individuo.
Poiché l’uomo è, infatti, portato naturalmente a vivere con gli altri, il magistero sociale pone grande risalto al valore essenziale della fiducia – che emerge dalla condivisione, da parte di un popolo e delle sue istituzioni, di valori etici e culturali comuni – e al paradigma della reciprocità quale elemento fondante di una società giusta, orientata al bene comune. Inoltre, l’insegnamento sociale della Chiesa contrappone alla corruzione, la via dell’umiltà contro la sopraffazione del prossimo, dell’inclusione contro l’egoismo, secondo una visione che rinvia nello stesso tempo ad una dimensione individuale e ad una istituzionale.
Nell’ambito di una società sempre più poliarchica e competitiva come la nostra, è interessante notare la relazione negativa che lega la corruzione alla fiducia e all’inclusione e, in ultima analisi, alla crescita economica. In un recente articolo apparso su questa Rivista[2], il teologo M. Schlag ha sottolineato come la fiducia rappresenti un bene morale essenziale per lo sviluppo economico. In particolare, rinviando all’opera di Fukuyama, secondo cui “la mancanza di fiducia in una società impone una specie di imposta su tutta l’economia” [3], l’autore sottolinea la stretta connessione tra il benessere di una nazione, la sua competitività ed il livello di fiducia inerente alla società.
Da tali riflessioni si può quindi agevolmente dedurre che, poiché ove c’è corruzione non può esserci fiducia, una diffusa “mentalità di corruzione pubblica e privata” si traduce inevitabilmente in una cornice istituzionale di tipo estrattivo (e quindi, non inclusiva)[4] e, in definitiva, in un disvalore economico che è certamente un freno allo sviluppo economico e sociale e, nei casi più gravi, una causa strutturale di sottosviluppo. Al contrario, specie nei contesti di maturità economica, proprio le istituzioni rappresentano la principale leva dello sviluppo economico e sociale nella misura in cui contribuiscono a spezzare le catene che legano le oligarchie alle istituzioni politiche e, dalla cui esistenza, deriva la spirale estrattiva che distrugge ricchezza anziché crearla.
Le principali determinanti della crescita economica sono certamente da ricercarsi negli incrementi di input (capitale e lavoro) e nell’incremento della produttività degli stessi (derivante principalmente dall’innovazione e dal cambiamento tecnologico). La crescita economica, tuttavia, pur essendo in larga parte connessa al progresso scientifico e tecnologico, non è la deterministica conseguenza di grandi sconvolgimenti scientifici o di epocali innovazioni tecnologiche. Tuttavia, queste sono condizione necessarie, ma non ancora sufficienti. Affinché tali condizioni necessarie si traducano in crescita economica, infatti, risulta fondamentale poter contare su un ceto imprenditoriale (supportato da un efficiente sistema bancario) capace di investire in innovazione e di trasformare quest’ultima in vantaggi competitivi sui mercati internazionali, nonché, sulla presenza di un contesto istituzionale, fatto di regole e di istituzioni capaci di incoraggiare tanto gli investimenti in nuove conoscenze quanto l’applicazione pratica delle stesse.
La qualità delle istituzioni e le caratteristiche di queste ultime (per esempio, la certezza del diritto, l’assenza di corruzione, la capacità di tutelare i diritti di proprietà, la presenza di regole in grado di premiare e tutelare il merito), potendo incidere sulle scelte dei cittadini e delle imprese, rappresentano dunque una chiave essenziale per accedere ai processi di sviluppo economico. Le istituzioni, infatti, possono incidere sulla crescita economica sia direttamente, tutelando la libera iniziativa, tutelando i diritti di proprietà, garantendo la stabilità politica e macroeconomica, investendo in istruzione e favorendo la mobilità sociale, sia indirettamente, contribuendo alla costruzione di un clima di fiducia che induca ciascuno a fare la propria parte, promuovendo la crescita del capitale umano e sociale, nonché, la formazione di una classe imprenditoriale votata all’innovazione e alla competizione.
In questo senso, una cornice istituzionale che tuteli e promuova il bene morale della fiducia, alimenta l’esercizio da parte dei singoli individui delle virtù umane le quali, a loro volta, si traducono in un valore pubblico che contribuisce ad accrescere il capitale sociale e a rendere sempre più inclusive le istituzioni.
Una siffatta società è dunque in grado di perseguire un modello di sviluppo economico e sociale integrale, incentrato sulla competizione (nel senso latino di cum-petere) e sulla solidarietà nei rapporti interpersonali e sul principio di sussidiarietà quale criterio ordinatore dei rapporti tra l’individuo e la comunità politica.
Le considerazioni che precedono ci invitano a prestare una maggiore attenzione alle conseguenze negative sul fronte economico e sociale di una cornice istituzionale in cui si annidi il germe della corruzione. In questa prospettiva, rivelano l’insufficienza di un approccio al problema dello sviluppo economico e sociale incentrato esclusivamente sulla dimensione individuale, che ometta cioè di soffermarsi sulla responsabilità di ciascuno oltre che rispetto al proprio agire, alle strutture e ai comportamenti sociali.
In questa prospettiva, con riferimento ai problemi della democrazia capitalistica di matrice europea, occorre quindi chiedersi se possiamo contare su una struttura giuridico-istituzionale e una cultura politica all’altezza delle sfide economiche dei nostri tempi, che richiedono sempre più società forti e coese.
In ambito europeo (e in particolare, dell’eurozona) si riscontra un problema istituzionale connesso al funzionamento e al deficit democratico delle istituzioni comunitarie; una forte spinta all’integrazione sul fronte delle libertà economiche non bilanciato dal raggiungimento di un sistema uniforme ed efficace di tutela dei diritti sociali di stampo europeo, coerente con la costituzione economica europea ed in grado di esprimere un’unica politica sociale europea; e, infine, un grave problema di governace economica connesso alla compressione delle leve di politica economica a disposizione dei governi nazionali.
Guardando alla cornice istituzionale del nostro Paese, invece, oltre ai noti problemi strutturali, appare fondato quanto rilevato da L. Festa in un articolo recentemente apparso su questa Rivista[5], secondo cui, accanto alle prove di forza dettate dalla spasmodica ricerca del consenso attraverso la via delle riforme ad ogni costo, la sensazione è che, “insieme all’introduzione di positivi elementi di innovazione, si stia lacerando un tessuto che collegava (pur con tutti i suoi consistenti limiti) Stato e società e che tutto si regga ormai solo su imposizioni via tweet e argomentazioni via talk-show, nonché, su relazioni altrettanto opache delle peggiori tra quelle primo-e-secondo-repubblicane“. Si riscontra, in altri termini, una cornice istituzionale dalle ristrette basi popolari, dai tratti sempre più estrattivi, incentrata su una corruzione diffusa e dilagante (al punto da essere ormai quasi accettata dalla comunità sociale), in cui anche tentativi di modernizzazione, lungi da coinvolgere il tessuto sociale, vengono imposti dall’alto in una situazione di sostanziale passività della società civile.
La risposta all’interrogativo circa l’adeguatezza del nostro sistema istituzionale non potrà, dunque, che essere negativa, rilevando, nello stesso tempo, alla necessità di promuovere un nuovo dinamismo della società civile – e, in particolare, dei cattolici – in grado di promuovere un tentativo di riforma dal basso che, ben prima che lungo la via legislativa, passi attraverso l’azione virtuosa della persona e la promozione di relazioni sociali basate sulla fiducia, attraverso la condivisione di un aggiornato quadro di valori intorno al quale rinnovare la nostra costituzione economica verso forme inclusive.
L’insegnamento espresso dalla dottrina sociale della Chiesa sulla dimensione morale della rappresentanza politica, la sua visione del potere come servizio e i suoi antidoti di natura istituzionale contro qualsiasi forma di corruzione, ci invita perciò a rimettere al centro del dibattito politico la ricerca del bene comune e, in questa prospettiva, a ricercare nuovi equilibri istituzionali nei rapporti tra politica e amministrazione, tra settore pubblico e società civile, tra bene comune e interessi di parte in grado di promuovere un più elevato livello di fiducia nelle relazioni interpersonali ed un maggiore grado di inclusione sociale.
Le istituzioni, infatti, non sono eticamente e culturalmente neutre, bensì riconducibili alle idee e agli ideali iscritti nella cultura civile di un popolo. Il modello istituzionale proposto dalla DSC è inclusivo, democratico e aperto; esso favorisce la partecipazione ai processi decisionali e la contendibilità delle opportunità quale efficace strumento di contrasto alla corruzione e presupposto stesso di un’ecologia umana. In questo senso, è un modello che si basa sull’indissolubile legame tra la sfera istituzionale e quella individuale, ove la prima completa e rafforza la seconda e viceversa ed in cui le istituzioni sono in grado di promuovere la trasformazione delle virtù individuali in un solido ordine sociale capace di fare da argine alla corruzione e ad ogni forma degenerativa del potere.
[1] È l’espressione utilizzata da Papa Francesco in occasione della 68esima Assemblea Generale della CEI tenutasi lo scorso 18 maggio 2015, per indicare la capacità di “appropriarsi degli stessi sentimenti di Cristo, di umiltà, di compassione, di misericordia, di concretezza – la carità di Cristo è concreta – e di saggezza”.
[2] M. Schlag, Fiducia, segreto per i manager del futuro, Studi Cattolici, n. 650/2015, p.252 ss.
[3] F. Fukuyama, Trust. The Social Vitues and the Creation of Prosperity, Simon & Schuster, New York, 1995 p. 28; tr. it., Fiducia. Come le virtù sociali contribuiscono alla creazione della prosperità, Rizzoli, 1996.
[4] Il riferimento è all’opera di D. Acemoglu e J.A. Robinson (Perché le nazioni falliscono. Alle origini di prosperità, potenza e povertà, Il Saggiatore, Milano, 2013). Secondo gli autori la qualità inclusiva delle istituzioni economiche, che a sua volta dipende dalla qualità delle istituzioni politiche, è all’origine della ricchezza di una nazionale. Per estrattive si intendono le istituzioni che comportano una realtà sociale fondata sullo sfruttamento della popolazione e sulla creazione di monopoli. Così facendo, esse riducono gli incentivi e la capacità di iniziativa economica della maggior parte della popolazione. Per inclusive, invece, si intendono le istituzioni che permettono, incoraggiano e favoriscono la partecipazione della maggioranza della popolazione ad attività economiche che facciano leva sui talenti e sulle abilità di ciascuno, permettendo alle persone di realizzare il proprio intimo progetto di vita.
[5] L. Festa, La “rivoluzione passiva” che ci blocca, Studi cattolici, n. 649/2015, p. 220 ss.
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