Fabio G. Angelini (Università Uninettuno di Roma) – Flavio Felice (Università del Molise)
La risposta all’emergenza pandemica ha comportato, per forza di cose, effetti significativi sulle finanze pubbliche e, in particolare, sul debito pubblico che ha ormai toccato livelli pari al 160% sul PIL. Il dato sembra inesorabilmente destinato a peggiorare nei prossimi mesi, non solo perché il Covid-19 non è stato ancora sconfitto, ma soprattutto perché i mesi che abbiamo davanti saranno estremamente difficili sotto il profilo sociale, per fronteggiare i quali sarà necessario fare ulteriore ricorso alla spesa pubblica, non solo per stimolare la ripresa economica, ma anche per alleviare le conseguenze della crisi sulla vita delle persone, tutelandone i diritti fondamentali e la dignità.Il Recovery Fund non è la soluzione a tutti i nostri problemi. Le risorse che saranno messe a disposizione saranno rilevanti ma difficilmente risulteranno sufficienti a soddisfare il crescente novero di bisogni da soddisfare. Nello stesso tempo, risulta difficile immaginare che si possa a lungo sfidare i mercati senza aver prima dato segnali importanti di aver invertito la rotta del nostro modello di sviluppo.Dovremo perciò impiegare al meglio le poche o tante risorse – comunque scarse – che saranno disponibili, sia che vengano dall’Unione, sia che derivino da indebitamento o da nuovi processi di privatizzazione, ovvero, come la maggioranza non fa mistero di ipotizzare, da un ulteriore inasprimento del prelievo fiscale a carico di famiglie e imprese. In tutti i casi, poiché l’impiego delle risorse pubbliche da parte del settore pubblico presuppone sempre e comunque un sacrificio per quello privato – che può manifestarsi in modo diretto o, come nel caso dell’indebitamento, indirettamente, trasferendone il costo sulle future generazioni –, esso deve risultare da un lato giustificato dall’effettivo perseguimento di finalità di interesse pubblico e, dall’altro, realizzato secondo modalità tali da risultare efficiente. Sebbene, almeno all’apparenza, porre il problema dell’efficienza della spesa pubblica, se rapportata ad una tragedia di enormi proporzioni come il Covid-19, possa sembrare un approccio eccessivamente economicista, non si può non rilevare come in realtà, proprio le scelte concernenti le modalità di acquisizione delle risorse finanziarie e il loro impiego abbiano molto a che fare con quella dimensione etica che caratterizza la relazione tra diritti e doveri costituzionali.In questo contesto, allo strumento mercato spetta il compito primario di rendere possibile la crescita economica. Dunque, il fisco è concepito in modo funzionale come il sistema dei prezzi dei servizi che il pubblico offre agli individui, alle famiglie e alle imprese. Sicché, riteniamo che una costituzione fiscale adeguata dovrà tutelare e premiare chi risparmia, coloro che con le loro attività aumentano la produttività del lavoro, nonché chi, in forza della creatività e della “prontezza imprenditoriale”, rischia innovando. Qui troviamo sancito uno dei due principi fondamentali sui quali si fondano i moderni sistemi democratici basati sullo stato di diritto. L’enunciato di tale primo principio riguarda “l’uguaglianza e la generalità del dovere tributario”. Un principio che ritroviamo sancito nelle costituzioni attuali e che deriva dalle lotte del movimento costituzionalista e liberale di fine Settecento, sfociate nelle tre grandi rivoluzioni liberali di fine XVIII secolo: la Rivoluzione inglese, quella americana ed infine quella francese. Non dimentichiamo che i coloni delle tredici colonie nordamericane, che iniziarono il 4 luglio del 1776 il processo di secessione dalla Madrepatria, lo fecero al motto di “no taxation without representaion”. Ad ogni modo, saranno le rivoluzioni liberali della seconda metà del XVIII secolo ad esigere la cessazione dei privilegi fiscali nei confronti dei nobili, del clero e dei militari di alto grado.Meno esplicito nella nostra Costituzione è il secondo principio aureo relativo alla politica fiscale di tradizione liberale: “che l’imposta sia conforme al mercato”, quindi rispetti i diritti di proprietà e di iniziativa su cui esse si regge. La costituzione italiana, nell’articolo 53, I comma, fa riferimento ad un piuttosto vago ed elastico principio di “capacità contributiva del singolo, in rapporto all’obbligo di ciascuno di contribuire alle spese pubbliche”.A questi principi si oppone un’impostazione fortemente diffusa nei paesi continentali e, di conseguenza, anche in Italia. L’idea che le imposte vadano pagate per una sorta di “obbligo di solidarietà sociale da parte di chi fa parte della società” in base al principio: “ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Ebbene, al di là – come sempre – delle buone intenzioni, dovremmo chiederci, se posto in questi termini il tema fiscale, un simile principio solidaristico, rispetto al modello “cooperativo-partecipativo”, risponda all’elementare criterio di conformità economica, etica e politica.Sicché, la cifra dell’equità di un sistema fiscale (giustizia contributiva) dipende innanzitutto dal modo in cui viene decisa e gestita la spesa pubblica. È tramite il corretto controllo di questa che si può rendere tollerabile e quindi non oppressivo il sistema fiscale, riducendo così anche quei fenomeni di corruzione e di inefficiente impiego della spesa pubblica che tanto danneggiano il comparto economico ed il sistema politico. Sulla scia del modello cooperativo, Francesco Forte afferma che il limite alla pressione tributaria è suggerito da una rigida applicazione della teoria dell’utilità marginale decrescente. «L’utilità marginale dei beni sacrificati per pagare l’imposta è crescente, al crescere di questa. E i benefici della spesa pubblica che dall’imposta si possono trarre decrescono, all’ampliarsi di questa, per la stessa legge dell’utilità marginale. Dunque vi deve essere, fra economia di mercato ed economia della finanza pubblica, un equilibrio. Dove porlo non è agevole, ma varcato il 50% dei redditi medi dei cittadini e quindi del reddito nazionale, sembra difficile sostenere che vi è ancora una società libera, dominata dal mercato». È a questo livello che interviene il concetto di “illusione fiscale”. Che cosa intendiamo per essa? L’illusione fiscale è lo strumento in dotazione della classe politica per far passare come scelte eque e democratiche scelte inique ed irrazionali.Il problema dell’eticità delle scelte di finanza pubblica, in quello che possiamo definire il “modello cooperativo” di un’Economia Sociale di Mercato, espressamente richiamata nell’art. 3 del Trattato sull’Unione Europea, può essere enunciato nel seguente modo: le decisioni finanziarie superano un certo limite etico quando il singolo non è più padrone delle sue scelte. Superato un certo limite, infatti, l’imposta non è più percepita come il costo cui corrisponde un beneficio che si intende trasferire su se stessi e sugli altri, bensì come un costo netto (una perdita secca). In questo caso, l’imposizione fiscale non è più lo strumento di cui si dota uno Stato democratico in un’Economia Sociale di Mercato per conseguire quegli obiettivi che risultano proibitivi all’azione dei singoli, bensì un potenziale strumento di asservimento ai desiderata e agli interessi della classe politica che si serve formalmente degli strumenti democratici e delle istituzioni dell’economia di mercato: impresa, banca, mercato azionario, assicurazioni, famiglie e individui, per la realizzazione di obiettivi non deliberati da alcuna assemblea, dunque non espressi da alcun consenso democratico, non comprendibili in alcuna legge, non aventi carattere generale e del tutto alla mercé della discrezionalità del potere governante.La dignità umana e i diritti fondamentali della persona, quali limiti costituzionali al potere pubblico e presupposto stesso per l’esercizio di quest’ultimo, costituiscono nello stesso tempo un limite invalicabile per qualsiasi scelta di natura finanziaria. Pensare che, per far fronte alle inevitabili esigenze finanziarie dei prossimi mesi, si possa anche solo ipotizzare una nuova imposta patrimoniale a carico dei cittadini significa semplicemente ignorare tali vincoli di natura etica e giuridica. Essa, sommandosi alle numerose imposte, tasse, contributi e vessazioni che gli italiani conoscono da ben prima che il Covid-19 stravolgesse le loro vite, si presenta non solo come una soluzione difficilmente condivisibile sul piano etico ma in palese contraddizione con quel modello di Economia Sociale di Mercato altamente concorrenziale a cui proprio l’UE ci invita a guardare con fiducia e per rincorrere il quale, nel quadro giuridico-economico europeo, sono destinate le risorse del piano Next Generation EU.Occorre realismo e pragmatismo per affrontare i mesi che verranno. Non certo rincorrere l’odio e alimentare invidia sociale. Approcci incentrati su una visione burocratica e autoritaria dell’intervento pubblico nell’economia e nella società, alimentati dalla leva fiscale per finanziare il “costo del consenso”, risultano ormai improponibili, in quanto in contrasto con quell’ordinamento delle libertà che è l’Unione Europea. Se abbiamo imparato la lezione, infatti, dovremmo ormai essere ben consapevoli che tali approcci danno luogo ad una spirale senza fine che rende vano qualsiasi tentativo di successiva revisione della spesa, generando crescenti conflittualità tra lo stato e le altre componenti della società. Nello stesso tempo però non possiamo permetterci di far dipendere l’effettività dei diritti fondamentali della persona e, più in generale, del nostro modello costituzionale garantista, dai vincoli di bilancio o dai meccanismi sanzionatori insiti nelle dinamiche di funzionamento dei mercati finanziari. Occorre agire sia sulla ridefinizione del perimetro dei diritti sociali, secondo la prospettiva indicata dalla Corte Costituzionale, sia sulla riorganizzazione dell’apparato amministrativo chiamato a darvi effettività, perseguendo quell’efficienza della spesa pubblica che passa per una ridefinizione dei rapporti tra pubblico e privato, nel segno della sussidiarietà. Serve, dunque, un nuovo patto fiscale. Esso richiede innanzitutto istituzioni inclusive, resilienti, ordinate secondo il principio di sussidiarietà e di poliarchia, e dall’altra parte, una società attiva, capace di prendere le redini del proprio destino. Per raggiungere tale obiettivo, se il problema è immettere nuova liquidità nel sistema economico per promuovere quegli investimenti necessari per creare i presupposti per la crescita, piuttosto che considerare il risparmio privato come il bancomat della politica, questo patto dovrebbe concentrarsi, piuttosto che sulla logica dello “scambio fiscale” (fiscal exchange theory), sull’idea di usare il sistema finanziario per canalizzare i risparmi privati, invece che sul settore pubblico, su investimenti privati o su operazioni pubblico-privato relative a infrastrutture ed iniziative di interesse pubblico o rispondenti a finalità di interesse generale. Questo approccio, diversamente da altri incentrati su una visione eticamente discutibile delle scelte finanziarie e di intervento pubblico, risulta coerente con il modello dell’Economia Sociale di Mercato, rinviando ad uno sforzo cooperativo incentrato sulla capacità di allineare gli interessi in gioco e di convogliare, su base volontaria e non coattiva, i risparmi privati sugli investimenti, coinvolgendo i cittadini in un grande progetto di trasformazione del Paese che veda il settore pubblico, a seconda dei casi, nel ruolo di facilitatore degli investimenti privati, di co-investitore e di regolatore. Non si tratta di una strada completamente nuova. Ci sono strumenti normativi ed esempi positivi nel Paese, amministrazioni che hanno sperimentato con successo l’alleanza tra pubblico e privato e territori capaci di fare sistema stimolando gli investimenti e contribuendo al miglioramento del sistema politico locale. Pensiamo, per esempio, al ruolo che prodotti di risparmio gestito come i Piani Individuali di Risparmio, i Fondi specializzati in investimenti alternativi, gli European Long Term Investments Funds (ELTIF), i Mini-Bond possono svolgere al fine di canalizzare – non certo su base coattiva ma di convenienza economica – il risparmio privato verso l’economia reale. Siamo probabilmente ancora molto indietro rispetto al loro effettivo potenziale, ma tali strumenti esistono. Occorre promuovere una maggiore cultura finanziaria, intervenire con misure di ulteriore defiscalizzazione, promuovere la trasparenza e una maggiore concorrenza nel settore dei gestori di risparmio privato. Anche il risparmio previdenziale rappresenta un’opportunità per il Paese. Anche in questo caso, sebbene solo una minima parte degli investimenti realizzati dalle Casse di Previdenza guarda all’economia reale del Paese, esistono esempi incoraggianti che andrebbero conosciuti e promossi. Si pensi ad Arpinge, una società di investimento promossa da Inarcassa, Cassa Geometri e Eppi che opera come promotore ed investitore in infrastrutture, impianti e immobili a vocazione infrastrutturale. Ancora, all’ENPAM (Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza dei Medici e degli Odontoiatri) che ha destinato parte dei suoi investimenti su iniziative concrete in ambito sanitario e universitario, come il Policlinico Gemelli o, tramite CBM, società partecipata anche da altre Casse di Previdenza, nell’Università e nel Policlinico Campus Bio-Medico di Roma. Si pensi, ancora, al ruolo che le finanziarie regionali possono svolgere quali pivot del sistema locale al fine di stimolare la progettualità dei territori convogliando risorse pubbliche, capitali privati e competenze manageriali. Un esempio in tal senso è rappresentato da Finlombarda che, con il suo bando concernente lo sviluppo di operazioni di partenariato pubblico-privato ha, per prima, colto la grande opportunità dei nuovi strumenti (concessioni, contratti di disponibilità, leasing immobiliare in costruendo) messi a disposizione dal codice dei contratti pubblici per lo sviluppo di iniziative infrastrutturali e di servizio pubblico. Infine, merita di essere citato l’esempio del Friuli Venezia Giulia che, dimostrando visione politica e capacità manageriale ha saputo negli ultimi anni fare tesoro del FRIE, uno strumento agevolativo nato nel 1955, mettendolo a disposizione dell’iniziativa del settore privato. Tale fondo rotativo concede mutui a tasso agevolato a piccole, medie e grandi imprese per la realizzazione di investimenti a medio e lungo termine, per l’acquisto di macchinari e la realizzazione, l’ampliamento e l’ammodernamento delle sedi produttive. Attraverso tale strumento, la cui concreta operatività è affidata a banche private convenzionate – tra cui il Mediocredito del Friuli Venezia Giulia, partecipato dalla stessa Regione e dal Gruppo Bancario Cooperativo ICCREA – la Regione ha così favorito la nascita e il rafforzamento di iniziative di carattere industriale, compresi i servizi alle imprese industriali, appartenenti a tutti i settori industriali e al settore alberghiero. Basti pensare, per fare un esempio, alla nuova Piattaforma Logistica di Trieste, il cui ulteriore potenziamento è stato recentemente finanziato proprio attraverso il FRIE e ai tanti progetti già oggetto di proposte ad iniziativa privata che vedono in tale strumento un importante strumento di finanziamento. Cosa accomuna tutti questi esempi? Il fatto che la politica (e la finanza pubblica) giocano apparentemente di rimessa, facendo un passo indietro e lasciando alla società civile il ruolo di attore protagonista. In tutti questi casi, essa si pone al servizio del settore privato, rafforzandone la capacità propositiva e stimolandone l’imprenditorialità, riservandosi però la responsabilità del coordinamento e dell’armonizzazione degli interessi in gioco nella prospettiva della creazione di valore condiviso. Questi esempi sono la dimostrazione che per fare investimenti con una logica di promozione dell’interesse generale, quella della patrimoniale non è una strada obbligata. Si può fare a meno di introdurre nuove tasse a patto di rinunciare al protagonismo della politica tipico delle precedenti stagioni di interventismo pubblico, disegnando un quadro di incentivi di natura giuridica e stimoli fiscali capaci di convogliare il risparmio privato su iniziative promosse dal settore privato secondo criteri ESG (ambiente, sociale e governance) o in partnership pubblico-privato, su infrastrutture di rilevante interesse pubblico. Tale strada risulta efficiente e, dunque, eticamente preferibile rispetto al binomio nuove imposte–intervento pubblico, poiché si regge su scambi volontari capaci di creare vantaggi per tutti gli attori coinvolti. Un paradigma, quest’ultimo, che presuppone un diverso modo di vedere i pubblici poteri e un’organizzazione amministrativa riformata in profondità, fortemente impegnata nella soddisfazione dei diritti fondamentali della persona e chiamata a supportare gli attori del settore privato nel legittimo esercizio dei diritti di libertà, coordinandoli ed armonizzandoli nella prospettiva del bene comune. Per la politica non si tratta affatto di rinunciare a svolgere un ruolo di guida del Paese. Al contrario, si tratta di rivendicare con forza tale ruolo, dando avvio ad una stagione politica qualitativamente diversa.
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