L’idea che il populismo, alimentato da un mutato modo di concepire la politica al tempo delle nuove tecnologie e dei social network, implichi una maggiore democrazia è senz’altro uno degli equivoci più dannosi della nostra storia recente. Il fraintendimento sta sia nel considerare il popolo un’entità astratta, una massa indistinta di individui privi di soggettività e, dunque, di relazionalità; sia nel ritenere che sia concepibile, oltre che auspicabile, l’esistenza di un unico soggetto legittimato a rappresentare ciò che viene chiamato «popolo» escludendo, pertanto, ogni forma di legittima contendibilità del potere politico.
Il concetto di democrazia non può essere banalmente ridotto al semplice fatto che le decisioni politiche sono prese dalle maggioranze e che, dunque, esse si fondano sul consenso popolare. Senza, peraltro, porsi – specie alla luce dell’influenza che le nuove tecnologie possono esercitare sulle modalità di formazione dell’opinione pubblica e, dunque, sul processo democratico – il problema delle modalità attraverso cui tale consenso viene acquisito, gestito e conservato.
La democrazia rinvia senza dubbio a qualcosa di estremamente più complesso e delicato, che guarda ad una dimensione certamente formale, ma anche ad una sostanziale in assenza della quale non potrebbe certo parlarsi di autogoverno del popolo, almeno laddove si ritenga non si possa prescindere da determinati presupposti filosofico-teorici in ordine a tale forma di convivenza civile.
Invero, non tutte le prese di posizione che si avvalgono di una legittimazione maggioritaria possono ritenersi «democratiche». L’espressione delle preferenze, alla base del consenso popolare, non può essere l’unico criterio della democrazia, tanto più in un’epoca, come quella che stiamo vivendo, caratterizzata da una progressiva perdita di vivacità e dinamicità della società civile e dal (pericoloso) tentativo del potere politico, di quello economico e di quello comunicativo-tecnologico di appropriarsi dei suoi spazi, spezzando i legami sociali e strumentalizzandone paure e debolezze.
Le tecnologie digitali e l’interconnessione globale a livello di reti informatiche hanno cambiato il mondo, e continueranno a farlo. La rivoluzione di internet, che è ormai definitivamente destinato a soppiantare tanto i giornali quanto la televisione, ha cambiato definitivamente il sistema della comunicazione e, con esso, il funzionamento stesso dei processi democratici fondati sul circuito politico-rappresentativo e, dunque, sulla logica del consenso e dello «scambio politico-elettorale».
Sarebbe da incoscienti non rendersi conto che la relazione tra nuovi populismi e rivoluzione digitale non è affatto casuale e che i primi si alimentano della seconda così come quest’ultima sfrutta i primi per alimentare la propria – sin qui incontrastata – pretesa di potere sull’uomo. Se è vero che, come rileva Mauro Barberis, dall’ambiente e dalle relative credenze dipende anche il regime politico, non si può non evidenziare come la rivoluzione tecnologica stia contribuendo a modellare una classe politica che, nel bene e nel male, risulta essere sempre più a suo uso e consumo.
Da queste preoccupazioni emerge un’esigenza di riconoscimento della legittimazione che passa attraverso il diritto o meglio, per usare l’espressione di Manuel Atienza, un diritto inteso come argomentazione. Essa prende le mosse dal rischio – tutt’altro che ipotetico – di decisioni che, pur legittimate dal consenso popolare, si rivelino in realtà lesive dei diritti delle minoranze. Un pericolo quest’ultimo che interessa molto da vicino la tutela dei diritti fondamentali e gli esiti del bilanciamento tra valori confliggenti da cui dipende la loro effettività e, in ultima analisi, la preservazione di quella che si è soliti definire la dimensione sostanziale della democrazia.
Nulla esclude infatti che le decisioni delle maggioranze, per quanto valide dal punto di vista procedurale, rivelino in realtà l’assenza o la debolezza di comunità politica. Come recentemente evidenziato dal filosofo del diritto Fabio Ciaramelli, la politica costituisce la premessa e non la conseguenza della democrazia e, dunque, senza la costruzione di una comunità politica, capace di esprimere un’appartenenza comune, non ci può essere una vera democrazia.
Le proposte politiche populiste, basate sulla difesa di un «popolo» spesso vittima delle dinamiche estrattive degli assetti istituzionali, finisce per trasformarsi nell’esatto opposto di quella democrazia che vorrebbero contribuire a realizzare: in un antipluralismo tale per cui si finisce per negare legittimazione politica a coloro che non si identificano nella medesima idea di «popolo», e nel dominio di una parte (maggioranza) sull’altra (minoranza).
Non è un caso che il populismo si sia perlopiù manifestato come una via di fuga rispetto ad un’idea della democrazia quale insieme di regole che stabiliscono chi è autorizzato a prendere le decisioni collettive e con quali procedure. Una delle costanti dei governi di impronta populista – forti del consenso popolare acquisito e della capacità di influenzare l’opinione pubblica – è rappresentata, infatti, dal tentativo di allentare i vincoli procedurali e sostanziali tipici della democrazia costituzionale.
La democrazia, intesa quale metodo di formazione delle decisioni pubbliche, ruota però attorno all’idea di una verità sull’uomo. Tant’è che il populismo, come si è accennato, può radicarsi e prosperare avvelenando e distorcendo il processo democratico proprio nelle realtà in cui aleggia un malinteso concetto di «popolo» e, conseguentemente, di bene comune.
L’indebolimento dei presupposti filosofici che sono alla base dell’ideale democratico del governo del popolo finisce così, nello storytelling populista, per implicare l’accettazione di un’idea di sovranità popolare secondo cui la democrazia coincide con la regola della maggioranza e la volontà popolare con un potere governante abilitato ad agire senza freni.
Una siffatta concezione della democrazia, come detto, oltre che pericolosa nel contesto comunicativo-tecnologico attuale, è inaccettabile poiché deve fare i conti con l’esistenza di diritti per loro natura indisponibili come lo sono i diritti fondamentali della persona, chiamati a svolgere, sulla base del paradigma garantista che contraddistingue il modello dello stato costituzionale di diritto, il ruolo di limite del potere governante attraverso la vigenza di un obbligo di effettività che costituisce una parte essenziale (sebbene spesso in ombra rispetto al suffragio elettorale) della sovranità popolare. È in questa relazione che si instaura tra principio maggioritario e garanzie dei diritti fondamentali, e che si caratterizza per l’esistenza di vincoli giuridici e funzioni di garanzia, che si esprime un’autentica democrazia, rispettosa cioè della verità.
A conclusione di questa riflessione occorre rilevare, però, come la garanzia dei diritti fondamentali richieda spesso la predisposizione di un ingente apparato pubblico chiamato a darvi effettività (nei settori della sanità, difesa, scuola, giustizia e così via) e, soprattutto, risorse per farvi fronte. Poiché la regola della maggioranza implica tipici costi diretti e indiretti, connessi alla necessaria ricerca del consenso, che si scaricano inevitabilmente sul bilancio pubblico, tale meccanismo può innescare un pericoloso cortocircuito per cui l’inefficienza dei processi decisionali pubblici, sottraendo risorse destinate alla tutela dei diritti della persona, finisce non solo per alimentare scontento e distacco nei confronti delle istituzioni, ma per neutralizzare quel necessario freno al potere governante costituito proprio dalla garanzia dei diritti fondamentali. Lasciando così spazio, sulla base di una falsa promessa di sovranità, a pericolose tentazioni populiste, come sta avvenendo in gran parte del mondo a partire dagli Stati Uniti e dall’Europa.
Contrariamente alle proposte populiste di allentamento dei principi e dei vincoli costituzionali, in nome della democrazia digitale, della democrazia diretta e di un orizzonte delle decisioni politiche che si fa sempre più breve e privo di visione, un’autentica democrazia e una sovranità popolare correttamente intesa richiedono l’esistenza di garanzie – siano questi derivanti dal diritto interno o sovranazionale – in grado di assicurare l’effettività dei diritti fondamentali della persona sia direttamente, permettendo cioè la loro diretta esigibilità nei confronti dei pubblici poteri da parte dei cittadini, che indirettamente, riducendo cioè le inefficienze dei processi decisionali pubblici.
In conclusione pare davvero non potersi ignorare il pericolo che, sul terreno specifico della democrazia, la rivoluzione digitale ed il populismo di ritorno da essa alimentato possa rivelarsi – per dirla come Mauro Barberis – «un’enorme regressione» capace di portarci verso un modello istituzionale basato sulla cronica conflittualità tra élite intellettuali schierate a difesa dello Stato costituzionale, élite economico-finanziarie schierate a difesa di un modello di stampo mercatista e biopolitico e, infine, il «popolo» dei populisti inclini a credere all’illusione di uno Stato di sicurezza sovranista.
Fin qui, a dispetto degli enfatici proclami dei partiti populisti, ha prevalso l’alleanza tra quest’ultimo e i detentori del nuovo potere economico-tecnologico, a dispetto del paradigma garantista della democrazia sostanziale. Per il futuro si vedrà, ma certamente molto dipenderà dalla capacità di intellettuali e giuristi di contribuire a capire e a far capire l’entità della posta in gioco.
Fabio G. Angelini
Professore straordinario di Diritto amministrativo nell’Università Uninettuno e professore invitato presso la Pontificia Università della Santa Croce
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