(con Flavio Felice)
(Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2017)
In quasi tutte le democrazie occidentali soffia forte il vento di insofferenza nei confronti delle istituzioni e del loro establishment. Ciò vale tanto per quelle politiche (Stati, organizzazioni sovranazionali e amministrazioni pubbliche) quanto per quelle economiche (mercati, imprese, banche).
Le prime colpevoli di essere distanti dai cittadini, sempre più corrotte dalla gestione del potere e, nello stesso tempo, sempre meno capaci di farsi garanti dell’ordine economico e sociale; le seconde, sempre più capaci di incidere sulle nostre abitudini, di affermare regole e stili comportamentali e finanche di dettare le agende ai governi, eppure spesso indifferenti alle esigenze dell’umanità, alla dignità della persona e alla giustizia.
Ciò che le accomuna è la pervasività di una mentalità corrotta che si traduce in una cornice istituzionale di tipo estrattivo, cartina di tornasole di una società ingiusta, in quanto escludente, e incapace di guardare al bene comune, inteso come l’insieme delle condizioni che consentano a ciascuno di perseguire il proprio progetto di vita.
Se non possiamo fare a meno delle istituzioni (ne andrebbe della pacifica convivenza civile e del progresso dell’umanità), occorrerebbe allora indirizzare quel vento di insofferenza che accomuna le democrazie occidentali sulla qualità delle istituzioni, cioè sulla loro capacità di porsi al servizio dei più e non di servirsi dei più, a vantaggio dei pochi.
Servire, non servirsi, questo dovrebbe essere il punto centrale di una seria riflessione sul ruolo delle istituzioni innanzi ai cambiamenti del nostro tempo. Il che comporta la necessità di agire contemporaneamente sul piano dell’etica individuale e su quello delle regole che stanno alla base del vincolo sociale, economico e politico.
Il discorso di Tim Cook, Ceo di Apple, ai laureati del MIT, pone proprio il “servizio all’umanità” come la sfida più importante del nostro tempo, riportando l’innovazione tecnologica, la globalizzazione economica e le dinamiche finanziare entro una dimensione che, pur senza negarne l’importanza, le vede pur sempre indirizzate al bene della persona umana.
È proprio su questo terreno che le istituzioni economiche e politiche possono recuperare la fiducia delle persone, testimoniando la possibilità di una visione diversa, puntando alla creazione di valore attraverso quei processi inclusivi che vedono proprio nella partecipazione e nella condivisa assunzione di responsabilità verso il prossimo i propri tratti distintivi.
Fare dell’intrapresa economica un’occasione di “servizio all’umanità” è la migliore risposta contro quella diffusa mentalità di corruzione pubblica e privata – per usare l’espressione di Papa Francesco – che si riflette in una cornice istituzionale che compromette lo sviluppo materiale e sociale di un popolo, provocando ingiustizie e, a fronte del benessere di pochi, è fonte di povertà per molti.
La risposta a questi problemi potrebbe essere un modello istituzionale inclusivo che favorisca la partecipazione ai processi decisionali e la contendibilità delle opportunità, quale presupposto stesso di un’ecologia ancor prima umana che ambientale. Inclusione significa non ammettere alcuna pretesa rendita e operare affinché nessuna pretesa possa trovare una qualsiasi soddisfazione.
Inclusione significa educare alla cultura della condivisione e predisporre, a cominciare dal ricorso alle norme di rango costituzionale, un rigoroso sistema istituzionale che impedisca e punisca i tanti o i pochi, e comunque sempre troppi, percettori di rendite di monopolio, che si tratti di rendite politiche, economiche e culturali. ltura dell
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