(2 maggio 2017)
Lasciati alle spalle i festeggiamenti della festa dei lavoratori, sono in molti quelli che si sono interrogati sull’opportunità di mantenere questa ricorrenza. Del resto, non serve andare lontano. In alcuni casi basta guardare alla propria esperienza o all’interno del proprio nucleo familiare o, nel migliore dei casi, allargare lo sguardo alla rete delle amicizie per trovarsi faccia a faccia con la sofferenza di chi il lavoro non l’ha più e non riesce a ricollocarsi o di chi il lavoro non l’ha mai avuto e magari ha smesso di cercarlo.
Un dramma che interroga anche coloro che lavorano e che impegna tutti, secondo le responsabilità e possibilità di ciascuno.
La festa del 1° maggio non rappresenta più (o, quantomeno, non solo) un momento di rivendicazione dei diritti dei lavoratori e di lotta per il miglioramento delle loro condizioni. Nella realtà che ci circonda essa assume invece un significato diverso e per certi versi più complesso che ci riporta all’idea centrale dell’enciclica Laudato si’ di Francesco, secondo cui tutte le cose del mondo si tengono insieme l’una con l’altra.
Si tratta, in altri termini, di soffermarsi sulla realtà del mondo del lavoro e sulle conseguenze che le nostre scelte, più o meno intenzionali, possono innescare nella realtà economica e sociale determinando conseguenze di cui spesso non ci rendiamo neanche conto.
Valgano tre esempi. Nei giorni scorsi abbiamo assistito al dibattito sul futuro del lavoro e delle conseguenze dell’innovazione tecnologica, secondo cui in un futuro neanche troppo lontano quest’ultima risulterà inconciliabile con il lavoro umano. La tesi di fondo è, in questo caso, la sussistenza di un conflitto insanabile tra innovazione tecnologica, a sua volta connessa allo sviluppo, alle comodità e alla ricerca del profitto, e il lavoro umano sempre più svalutato e ridotto entro i confini della sua dimensione più materiale. Altro esempio è rappresentato dalla vicenda dell’Ilva di Taranto. Questa volta il conflitto è tra il lavoro, quale strumento indispensabile per il sostentamento del lavoratore stesso e della propria famiglia, e la salute di questi ultimi e delle popolazioni interessate dai tali processi di industriali. Un conflitto insuperabile (e perciò diabolico) in quanto involgente diritti fondamentali ed irrinunciabili della persona. Infine, l’abbandono della tradizionale visione della finanza quale strumento di collegamento tra il risparmio e l’impresa determina una riconfigurazione del sistema economico che vede una crescita del peso dell’industria finanziaria rispetto all’economia reale e, unitamente alla globalizzazione, fenomeni di frammentazione dei processi produttivi fino ad ora sconosciuti. Anche in questo caso il lavoro entra in conflitto con altri valori e interessi, richiedendone da un lato un bilanciamento e, dall’altro, la messa in discussione delle modalità di lavoro, delle competenze possedute e persino delle conquiste sin qui ottenute nel campo dei diritti dei lavoratori.
Il conflitto – quale inevitabile conseguenza di una società complessa ed interconnessa, in cui tutto si lega e si intreccia in un groviglio di interessi e di particolarismi che genera disuguaglianze e povertà materiali e spirituali, entro i quali è difficile districarsi – rappresenta oggi più che mai una condizione immanente del mondo del lavoro e della società che cambia.
L’inasprimento di tale conflitto, di per sé inevitabile, è però la conseguenza dello smarrimento del senso autentico del lavoro, del suo collegamento con la teologia della creazione e, in definitiva, della sua strumentalità rispetto allo sviluppo integrale della persona.
In una società complessa la sfida non può certamente essere quella di estirpare il conflitto dalla dimensione del lavoro bensì, di offrire gli strumenti di risoluzione della conflittualità e di mitigazione dei suoi effetti, a partire dalla condivisione di una gerarchia di valori, che trovi proprio nella dignità umana il vertice della piramide, dalla quale far scaturire una cornice istituzionale capace di assegnare coerenti incentivi e disincentivi alle attività economiche.
Tornando alla domanda iniziale, può allora avere ancora senso una festa dei lavoratori. Specie laddove essa, proprio alla luce delle difficoltà e minacce che il mondo del lavoro vive nella società contemporanee, rappresenti l’occasione per riscoprire – in modo pienamente laico ed in dialogo constante con la cultura del nostro tempo – la centralità del lavoro e la sua intima connessione con il senso della vita.
In ultima analisi, la necessità di riporre la dimensione del lavoro nella sua giusta dimensione di strumento indispensabile per la piena realizzazione della persona, sia sul piano squisitamente materiale che su quello spirituale della partecipazione all’opera creatrice. Queste considerazioni, facendo proprio il senso del messaggio per la giornata del 1° maggio 2017 trasmesso dalla Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, rappresentano il punto nevralgico della riflessione che animerà i lavori della 48ª edizione delle Settimane Sociali dei cattolici che si terrà a Cagliari dal 26 al 29 ottobre 2017.
Il riconoscimento della centralità del lavoro e, in definitiva, della persona però non basta. Esso richiede l’impegno concreto a costruire le condizioni affinché si possa generare valore economico non rifiutando o estraniandosi dalle regole che governano i processi economici bensì, al contrario, coniugando le esigenze della giustizia commutativa con quelle della giustizia sociale, quale reciproco ed indispensabile complemento della prima. Perché ciò possa realizzarsi, spetta alle istituzioni nazionali ed internazionali il compito di definire quel solido contesto giuridico, al cui centro troviamo la dignità umana, all’interno del quale anche i conflitti che interessano il mondo del lavoro e che costituiscono una minaccia per la dignità della persona possano essere risolti e indirizzati verso il bene comune secondo la prospettiva della via istituzionale della carità indicata da Benedetto XVI nella Caritas in Veritate.
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