(20 giugno 2017)
Dall’inizio del suo pontificato Francesco è tornato più volte sul tema della corruzione. Talvolta citandola apertamente (come nel marzo 2015 in occasione della sua visita a Scampia, nel messaggio “Urbi et Orbi” pronunciato il giorno di Pasqua del 2015 o in occasione dell’Assemblea generale della CEI tenutasi sempre nel 2015), altre volte parlandone tra le righe, puntando cioè lo sguardo su temi connessi come l’inclusione sociale nell’Evangelii Gaudium, indicata non a caso come la strada maestra per umanizzare la società e sconfiggere una “corruzione ramificata” di dimensioni mondiali, l’ecologia umana integrale nella Laudato Sì e la misericordia durante tutto l’anno giubilare e nella Misericordia et Misera, in cui ha espresso la sua speranza e fiducia nelle capacità dell’uomo di uscire “dal cerchio dell’egoismo che ci avvolge, per renderci a nostra volta strumenti di misericordia”. Finanche nel discorso pronunciato all’ILVA di Genova, incentrato sul tema del lavoro, sembra difficile non cogliere un’assonanza tra la figura dello “speculatore”, la cui logica è quella di servirsi piuttosto che di servire la dignità del lavoro, e quella del “corrotto” la cui caratteristica è invece proprio quella di negare la dignità dell’uomo e la sua natura relazionale, dando vita a fenomeni di sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
La centralità e la trasversalità del tema della corruzione nel magistero di Francesco non deve stupire. Nella dottrina sociale della Chiesa, infatti, il termine corruzione viene utilizzato in un’accezione più ampia rispetto alla dimensione meramente giuridica, tesa piuttosto ad evidenziare come un sistema di convivenza sociale che ponga la corruzione quale paradigma dei rapporti interpersonali sia destinato ad andare in frantumi.
Per capire le azioni umane “occorre guardare alle relazioni che l’uomo ha nella sua natura più profonda” e, cioè, con Dio, con il suo prossimo, con il creato. E’ proprio questa “triplice relazione – nella quale rientra anche quella dell’uomo con se stesso – che dà contesto e senso al suo agire e, in generale, alla sua vita”. Quando tali relazioni si lacerano, infatti, si indeboliscono gli stessi pilastri su cui si fonda una società e il bene comune finisce per essere sostituito dall’interesse particolare “che contamina ogni prospettiva generale”. Con queste parole dense di significato – contenute nella prefazione all’ultimo libro del Card. Turkson (“Corrosione”, Rizzoli) – Francesco, dimostrando un profondo legame con l’insegnamento dei suoi predecessori e, nello stesso tempo, una straordinaria capacità di parlare al cuore di ciascuno di noi, ci spinge non solo a riflettere sulle radici umane della corruzione ma, ancor di più, sui riflessi dell’origine interiore di tale corrosione sulla nostra cultura e nelle diverse espressioni dell’agire umano.
La corruzione, pur nascendo dal cuore dell’uomo, finisce infatti inevitabilmente per insinuarsi nelle costruzioni sociali, culturali, politiche, economiche e criminali innescando un circolo vizioso che lede la dignità della persona provocando in essa rassegnazione e umiliazione, generando una sotto cultura che si traduce in un ordine sociale a sua volta corrotto, che compromette lo sviluppo materiale, sociale e spirituale di un popolo provocando ingiustizie e povertà. E a farne le spese – ovunque ci siano istituzioni politiche ed economiche estrattive – sono sempre i più deboli, sempre più esclusi, sempre più scartati dalla società, presi in considerazione solo laddove funzionali al disegno di potere di qualche minoranza felice.
Lo sguardo della dottrina sociale della Chiesa sulla corruzione svela perciò una prospettiva più ampia. Non si tratta (solo) di prevenire la commissione di reati o di dar vita a complessi sistemi normativi o repressivi anticorruzione, ma di combattere sul piano culturale quella diffusa “mentalità di corruzione pubblica e privata” che genera solo impoverimento e forme di esclusione, spezzando i legami sociali e privando il mondo della fiducia e della speranza che rappresentano, invece, l’autentico motore dello sviluppo umano integrale. La via indicata da Francesco, coerentemente con la sfida dell’inculturazione della fede annunciata nell’Evangelii Gaudium, è quella di un nuovo umanesimo nel quale credenti e non credenti possano riconoscersi e cooperare, ciascuno “secondo le proprie possibilità, i propri talenti e la propria creatività”.
L’invito del Pontefice a innescare “questa ri-creazione contro la corruzione” è universale ma interroga ogni uomo in modo differenziato, in relazione alla specifica situazione di ciascuno. Facendo appello in modo speciale alle coscienze di coloro che, in ragione del proprio ruolo, dei propri talenti e della propria creatività, possono maggiormente contribuire a innescare il circolo virtuoso delle istituzioni inclusive, Francesco invita coloro che si sono corrotti, rimanendo essi stessi vittime di tale “mondanità spirituale”, ad andare oltre se stessi, a “superarsi in spirito di ricerca”, spezzando le proprie catene facendo appello proprio alla misericordia che abbiamo contemplato e visto in azione durante l’anno giubilare e alla carità che da essa discende.
Proprio la carità, che rappresenta la cinghia di trasmissione tra la misericordia di Dio e il nostro libero arbitrio, richiama l’attenzione sulla necessità di promuovere con le nostre azioni quotidiane, piccole o grandi che siano, un ordine sociale, economico e politico fondato sulla dignità e sulla libertà di ogni persona umana, nel rispetto delle esigenze di quelle relazioni che esprimono l’essenza dell’uomo, assumendo pienamente la responsabilità per il bene comune. A seconda dell’attività di ciascuno, è la carità infatti a dare senso autentico all’uso che facciamo degli strumenti a nostra disposizione – nel management, nell’azione politica, nella comunicazione, nelle aule dei tribunali, nella finanza, nelle università e così via – ponendoli al servizio della persona.
Richiamando il recente discorso del CEO di Apple Tim Cook ai laureati del MIT, potremmo perciò dire che all’opposto dell’essere corrotto c’è l’essere al servizio dell’umanità. In relazione a qualsiasi attività, dalla più nobile alla più umile, essere al servizio dell’umanità significa essere sempre più consapevoli e responsabili, capaci di interrogarsi continuamente sul senso del proprio vivere e sulle conseguenze dirette ed indirette del proprio agire. In definitiva, essere in grado di farsi carico della propria missione, lasciando che essa impregni le organizzazioni in cui ciascuno opera, permeando ogni realtà umana della ricerca del bene comune e fungendo noi stessi da anticorpi contro quelle forme di disordine che corrompono l’esistenza confinandoci dentro noi stessi. on(){“ga”!=gb&&
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